Entrate ecclesiastiche
Fonti da cui gli
enti ecclesiastici traggono i mezzi economici necessari alla loro attività. In materia si fa in primo luogo la distinzione tra entrate
interne ed
esterne, a seconda che provengano o meno dagli stessi
beni ecclesiastici. La distinzione fondamentale, comunque, è quella tra:
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entrate di diritto pubblico, che sono quelle spettanti agli enti ecclesiastici in quanto tali, in connessione con la propria funzione: esse comprendono le
imposte ecclesiastiche; le
tasse ecclesiastiche [
vedi Imposte ecclesiastiche]; gli
interventi finanziari dello Stato in favore del culto e del clero cattolico, consistenti in prevalenza nella devoluzione alla Chiesa, tramite la
Conferenza Episcopale Italiana, di una quota dell’otto per mille dell’
IRPEF, liquidata dagli uffici sulla base delle dichiarazioni dei redditi annuali. È impiegata per esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero o per interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo;
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entrate di diritto privato, che sono quelle percepite dagli enti ecclesiastici alla stregua di ogni altro soggetto e comprendono le
oblazioni dei fedeli, ammesse all’interno o all’ingresso delle Chiese o di altri edifici in loro proprietà (art. 7, n. 3, Accordo 18-2-1984 tra Italia e Santa Sede, art. 156 R.D. 773/31); le
disposizioni per l’anima (art. 629 c.c.); i
legati pii e le
fondazioni di culto (art. 12 L. 222/85); i
redditi patrimoniali e le
prestazioni terratiche (es.: il
censo consegnativo o bollare, il
censo riservativo o
rendita fondiaria, le decime prediali, ex feudali, dominicali, i
canoni enfiteutici), che sono state commutate, ai sensi della L. 4727/1887, che ha abolito soltanto le
decime sacramentali in annue prestazioni fisse in denaro.